Università degli studi di Roma La Sapienza |
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Cimentarmi, io che sono un piccolo pensatore, su riflessioni così alte, che sfiorano figure gigantesche, per l’umana cultura, quali Socrate e Cristo, può sembrare, se non addirittura essere, un atto di presunzione; ma se penso che questi due grandi personaggi della storia dell’umanità, che hanno sacrificato, seppure in forme diverse, la loro vita al fine di dimostrare che la verità non è un fatto formale, ma che coinvolge invece profondamente la consistenza dell’io, nella sua visione del mondo e della vita, in un atto d’intenzionalità che presuppone una realtà assoluta, mi rendo conto che ogni contributo può valere al raggiungimento di un principio di convivenza non specificamente epistemologica, ma morale e conservativa per la specie. Socrate, nato ad Atene nel 469 a.c., ereditò una grave situazione politica, scaturita dalla sconfitta ateniese nella guerra del Peloponneso, che vide vincitori gli spartani di Lisandro e quindi l’abbattimento della democrazia, a vantaggio di un governo oligarchico costituito da trenta aristocratici ateniesi, i quali aprirono le braccia all’invasore. Ovviamente, come sempre in politica, serviva un capro espiatorio e Socrate, dopo Anassagora, Protagora e tutta la scuola sofista, si prestava bene a questa operazione dimostrativa. Così come il sacrificio di Cristo si prestava al rafforzamento del governo romano, ormai in crisi, nella Palestina. Entrambi accettano serenamente la morte per il trionfo della verità e della giustizia; il loro comportamento e la loro coerenza, manifestazioni uniche di moralità e di vera cultura, sono un esempio di espressione protrettica, cioè indirizzata all’arricchimento delle coscienze umane. Da questa filosofia emerge l’unità del valore, dove il vero non può essere separato dal giusto. Ciò che è vero in sé è anche giusto in sé, ma ogni definizione di verità e di giustizia devono tener conto della condizione dell’uomo in quel determinato momento, nella sua attualità culturale e storica. Per Socrate il sapere era un sapere tecnico-pratico e non teorico, come lo sarà per Aristotele, una grande virtù comunicabile che nasceva dalla riflessione razionale e dalla conseguente chiarezza : era certo un sapere umano, che al contrario del sapere politico, fatto di processi mentali egoistici e di convenienza storica, rappresentava il simbolo della ragione e quindi del soggetto singolo e della sua coscienza. Conoscere se stessi significava per Socrate avere coscienza delle proprie azioni e perciò essere responsabili del proprio operato, nel quale si tende al più alto livello di espressione. Paradossalmente per Socrate un uomo che pratica il male (come il bene) ed è cosciente di ciò che fa, è più vicino alla verità di quanto lo sia chi fa del male (o del bene) senza consapevolezza. Per questo Socrate ha bevuto la sua cicuta nonostante Critone lo implorasse a salvarsi e per lo stesso motivo Cristo accettò di morire crocifisso per salvare l’uomo dal male e per confermare il volere del Padre. Entrambi hanno confermato la grandezza dell’eternità, con la morale, con la verità e col senso di giustizia, che dovevano essere messaggi indiscutibili di valori per tutta l’umanità e per tutti i tempi. Non si può dire altrettanto della comune giustizia degli uomini, la quale non è certo sinonimo di verità : quest’ultima può essere considerata sotto un profilo temporale e ci troviamo così davanti ad un concetto di verità storica; può essere considerata quale entità a-temporale, come le verità scientifiche, che esistono in quanto fanno parte del mondo a-storico della ripetizione; può infine essere considerata verità assoluta la verità che si struttura, dentro le coscienze, con la fede, non per una esigenza strettamente soggettiva, ma per una trascendentale ricerca intenzionale dell’assoluto. E se la giustizia deve essere costantemente sorretta e giustificata dalla verità, dobbiamo ritenere la giustizia come un evento contingente, che caratterizza la vita dell’uomo, nella sua definizione temporale, dentro la storia, per distinguerla dalla giustizia a-temporale, divina che, a partire dalle coscienze, unisce le storie soggettive degli uomini all’assoluto. Alla luce di queste considerazioni di verità e di giustizia, ogni condanna terrena deve essere contingente e legata al recupero della vita. Una condanna a morte, sentenziata dagli uomini, come è accaduto con Socrate e con Cristo, è una grave violazione dell’assoluto e perciò un abuso di potere della storia; la nascita e la morte sono due eventi metafisici che, pur riguardando l’esistenza nel suo percorso temporale, non possono essere decisi dall’uomo. Il diritto perciò è una scienza imperfetta, talvolta in antitesi con la stessa concezione di verità; è uno strumento della storia che viene adoperato per l’esercizio del potere e, purtroppo oggi, rappresenta un mezzo di giustificazione del trionfo del male sul bene, con le guerre e con le distruzioni di massa, con l’egoismo e con lo sfruttamento nella distribuzione delle risorse umane.
Prof. Antonio Vento |
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