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SUICIDIO ED AUTOSUICIDIO

Il suicidio è sempre un evento scomodo, per chi lo esegue e per i  testimoni di un atto che pone, come domanda di base, il concetto di fondamenta dell’esistenza. Partendo da una constatazione, che la nascita o meglio la caduta nel mondo può essere intesa come regalo ontogenetico o, al contrario, come scacco, perché trovandosi inaspettatamente come soggetto di un fine, di cui è solo coscienza per la sua presenza nel mondo, subisce una continua riduzione, oggettivizzandosi in altri fini particolari e parziali, che non soddisfano il fine universale, dell’essere nel mondo, ma interpretano i vari passaggi di una trascendenza, che potrebbe universalizzarsi solo nella passione, come in Cristo, dove lo scacco terreno pone in essere una universalità celeste: senza lo scacco terreno Cristo non avrebbe potuto godere della sua universalità e sarebbe solo morto come l’uomo. L’unico fine  che potrebbe riscattare l’uomo dalla sua finitezza è soltanto la libertà, che comunque si preclude, quasi sempre, con le contingenze del mondo e col determinismo della storia. Ciascuno è libero, ma solo per avvertire ed interpretare il tipo di scacco che ha subito o sta per subire, misurando questa personale coscienza sulle contingenze della sua esistenza, sul dasein (esser-ci) che, a sua volta, deve fare i conti col mitsein (essere-con). Hegel sosteneva che un’umanità che si ritiene pienamente soddisfatta del suo operato, cessa di essere umanità. Non sarebbe più libera, perché non potrebbe più trascendere, rimanendo schiava di se stessa, solidificata e inerme; non più percorso di libertà e, pertanto, inutile anche a se medesima. Considerando che il fine dell’uomo è quello di conoscere le sue fondamenta, se vuole tentare di concretizzare questo fine nella conservazione della specie, come principio di libertà, ogni avvenimento particolare e contingente riduce sempre più il fine generale (la libertà), creando angoscia e sentimento di fallimento, cioè di scacco (la schiavitù). Non si può dire, di fronte a un suicidio, “quel poveraccio ha preferito la morte perché è finito in carcere o perché la ragazza l’ha lasciato...ogni suicidio presuppone un fallimento delle generali condizioni dell’umanità: le interpretazioni – biologica, psicologica, antropologica ecc. – sono un abuso di lettura di un fatto che riguarda il singolo, ma a partire dal collettivo. Per esempio, in questi giorni, si stanno concretizzando degli stati d’animo soggettivi, che subiscono però le condizioni generali di un essere-con, tendenti alla presa di coscienza di uno stato oggettivo di disagio, che nega ogni aspirazione alla libertà e quindi alla domanda delle fondamenta dell’uomo, scatenando in tali soggetti un profondo sentimento di fallimento, che si esprime in depressione ed in potenziali tendenze suicide. Non scordiamoci che, alcuni anni addietro, con la cartolarizzazione, si scatenò quella che noi abbiamo definito “la Sindrome da Cartolarizzazione”, che causò anche suicidi (ricordiamo quello di via Benedetto Croce, a Roma). Il governo tecnico attuale, chiamato in causa per risolvere i problemi del paese (l’hanno definita “missione salva paese”), può soltanto stare al gioco più generale di un’economia che impone delle regole per rimanere in un contesto europeo, dove invece, ubbidisce a progetti speculativi bancari che nulla hanno a che vedere col principio di libertà, creando angoscia e sentimento di schiavitù e di inutilità. In un solo gesto è stata negata ogni ontologia e perfino la religione è stata coinvolta nel gioco degli interessi finanziari e dei privilegi, dimostrando che la chiesa è solo strumento di potere e nulla conta sotto il profilo della libertà del singolo uomo: la libertà viene barattata con la necessità. Questa manovra, che colpisce le frange più basse della società, non è altro che parte di una speculazione bancaria globale, il cui fine non è quello di realizzare la libertà dell’uomo che, in questa operazione, come in ogni altra manovra della politica e dell’economia, diventa un accidente marginale, avendo perso, nel tempo e per mano di questi presunti salvatori, che sono solo un ossimoro storico, il suo ruolo centrale. Presto, a mio avviso, assisteremo ad azioni disperate e suicide da addebitare alle scelte di questo governo tecnico; se ciò accadrà, chi si assumerà le responsabilità?: questa analisi dimostra che non si deve ricorrere al caso. E chi dice che non bastano le parole per uscire dalla crisi (che non è crisi, perché studiata e voluta; è una speculazione che non richiede comprensione, ma solo negazione per una più giusta distribuzione delle risorse) è uno stolto in malafede, perché non si pone un fine per l’uomo, partendo già da un fine diverso, quello dei propri vantaggi dell’economia, attraverso le banche; il fine dell’uomo è la conoscenza delle sue fondamenta e, quindi, la sua libertà. Vedremo crescere l’ansia dell’esistenza, la depressione, le dissociazioni ossessive, l’insonnia, la solitudine, il disagio esistenziale, la conflittualità sociale, la diffidenza verso la politica e verso le istituzioni, il bisogno di una fuga suicida e così via. Qualcuno riderà, definendo questa visione del mondo e della vita catastrofica e, perché no, delirante: a questi poveri intelletti auguro che non le scoppino casi tra i famigliari e tra le persone conosciute, tanto sono abituati a fare come lo struzzo di fronte al pericolo. I problemi degli altri si ignorano sempre. Ne riparleremo.
Ritornando al suicidio, prima di chiudere la conversazione su un tema così importante, che colpisce tutti gli strati sociali, vorrei puntualizzare un concetto fondamentale, che sta alla base di ogni suicidio: l’apparente diversità di concezione della vita. Considerando il suicidio come un rifiuto della vita è facile capire che se la vita si rifiuta è perché non piace. La vita allora può non piacer per due motivi: 1- esistono delle condizioni di equilibrio intrinseco del S.N.C. (cervello e mente, che ontologicamente e filogeneticamente hanno impresso questo rifiuto) che, se perse per ragioni auto ed etero ambientali, spingono il soggetto verso un’azione di negazione irreversibile. 2- la pressione emotiva del mondo esterno (mitsein – essere-con) sulla fragilità innata dell’io, che scopre, nel tempo la sua limitatezza e la sua impotenza (si sente un dio mancato), spingendolo ad annullare questo sentimento di angoscia, mal compensato o mai compensato, che nega ogni prospettiva di felicità e di libertà: lo schiavo si gioca l’esistenza nella ricerca della libertà. Ricordiamo che le catene della schiavitù non sono solo catene materiali, di ferro, ma anche (e più frequentemente) morali. Per evitare questi risultati catastrofici  dell’uomo non servono solo gli antidepressivi o altri psicofarmaci, né il rifugio inutile e insano delle droghe; serve creare un ambiente utile alla vita, dove l’uomo occupi il posto centrale, finendola con l’idea (diventata mitologica) che la ricchezza dà la felicità: si scopre che questa non può essere considerata il fine, bensì solo un mezzo per ottenere altre cose, come la sicurezza, le donne ecc., che  pongono l’uomo oltre quello che fa, al di là del suo fine,  perso lungo la strada, per diventare vittima della sua stessa schiavitù.

 Prof. Antonio Vento 

08-12-11

 

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