Università degli studi di Roma La Sapienza |
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Cominciamo col dire che lo spazio di per sé non ha esistenza, è puro nulla, è mancanza di concretezza. Nel momento in cui la concretezza invade lo spazio, definendolo, nega il suo nulla e pertanto è il nulla del nulla. Quindi è una concretezza inconcreta, è un nulla che nientifica il nulla, negandolo e sostituendolo con la pienezza immanente. Per esempio, un architetto o un ingegnere edile, che costruiscono una dimora o un ponte, devono generare uno spazio-luogo che prima di esserci è solamente pensato, perciò pensiero del nulla e poi spazialità concreta del pensato. E’ questo uno spazio pre-luogo perché precede lo spazio pieno che non esiste fino a che la mente lo trattiene come idea o progettazione e non lo nega definitivamente come pensiero o come spazio vuoto. La concretizzazione materiale dello spazio è quindi la negazione dello spazio stesso, nel suo valore di ente che viene svuotato della sua ontologica nientità dalla res-extensa, che si definisce come esserci nella particolarità della negazione dell’ente astratto, preesistente come nulla. La mente è l’unica astrazione che pur non possedendo il nulla dell’infinito, lo può circoscrivere e riscattare dalla sua infinita nullità, che altrimenti non sarebbe percepibile, pertanto puro nulla indefinibile e destinato a finire nella sua stessa nullità, dandogli un senso, con la complicità di un altro parametro, altrettanto nientificato e nientificante, che è il tempo. L’opera costruita è tale sol perché riesce a definire un concetto temporo-spaziale che da uno stato pre-logico e pre-eidetico diventa essenza di contenuti, nulli nella forma come nella sostanza, ma partecipi di una infinita elaborazione associativa sinaptico-neuronale, mediante la quale la mente, come espressione concreta di una elaborata nullità ontologica e filogenetica evolutiva, sviluppa, con l’ausilio dei peptidi e di tutti i mediatori chimici del cervello, un progetto definito e spazialmente determinato. Vorrei porre l’attenzione sull’importanza della fissazione dell’immagine di un contenuto spaziale definito, che viene percepito con la retina e da questa comunicata, in una serie di passaggi sinaptici, fino ai centri della vista (nella regione occipitale del cervello), che coordinano e rimandano un’idea definita di immagine e quindi di spazio logico e funzionale ad un progetto. Se tali funzioni fossero alterate, anche lo spazio risulterebbe alterato, perciò ogni spazialità è priva di oggettività temporo-spaziale, pur possedendo la brutalità della sua immanenza. L’ immanenza da sola, escludendo la funzionalità di una mente che pensa, sarebbe insufficiente a se stessa perché la sua ragion d’essere è solo in relazione alla mente che l’ha traslata, in un atto intenzionale, da sé verso il nulla che sacrifica l’ assolutezza per consentire la sua definizione. Lo spazio infinito che noi osserviamo non ha mai una propria esistenza ed una sua essenza, perché la percezione che la nostra mente ha dello spazio è di per sé occupata dalla sua stessa mancanza di forma, cioè dal vuoto. Se un ingegnere progetta di far passare un ponte sullo stretto tra Reggio e Messina è perché è cosciente che in quel punto c’è il nulla, perciò quel vuoto non ha esistenza alcuna, in quanto negato dalla sua stessa mancanza di forma. E’ proprio nel rapporto oppositivo, tra nulla dello spazio e nulla della mente, che si mette in movimento un processo di costruzione vitale di spazio che, con la sua definizione, frutto di espressioni creative del pensiero, offre alla mente una grande opportunità di attuazione al di là della sua iniziale nullità. La nascita di un prodotto concreto, come spazio circoscritto ed immanente, se da una parte nega il nulla dello spazio, già negato dalla sua stessa spazialità infinita, dall’altra nega la mente, come principio autosufficiente e aprioristico, in quanto è il nulla della spazialità che consente al nulla del pensiero di elaborare una intuizione temporo-logico-spaziale e di tradurla in immanenza che supera la nullità dell’infinito spaziale per divenire particolarità creativa dello spazio, che la mente percepisce e definisce in precise forme funzionali ai suoi schemi. Viene così superata la visione newtoniana dello spazio, inteso come un grande contenitore di cose concrete. Esiste invece un rapporto intenzionale e trascendentale tra spazio e mente, che si esprime, nei millenni, in elaborazioni empiriche tra l’io che pensa e vede e la realtà che si fa vedere e pensare e che c’è nell’assoluto dell’ontologia del visibile, senza dover sempre ricorrere al confronto dualistico e quasi conflittuale tra l’io che pensa e vive e la realtà oggettiva (vengono così superati i dualismi cartesiano e kantiano). E’ proprio lo spazio che si offre al cervello-mente, che costruisce in un processo intenzionale la sua filogenesi e la sua ontologia, dentro le quali lo spazio stesso si fa avanti e si concede ad una progettazione che supera la nullità del vuoto, l’opportunità di esprimere la sua più alta funzione che non sarebbe tale se non ci fosse una siffatta opportunità e rimarrebbe così in un rapporto conflittuale con la realtà oggettiva. L’io si fa, nel tempo, perché la sua intenzionalità è quella di superare la sua limitatezza temporale e spaziale, per dilatare al massimo la sua presenza ontogenetica. Per fare questo è necessario però scoprire il nesso profondo che unisce l’esistenza all’assoluto e che rende possibile ogni progetto dentro cui si trova a rischiare la sua esistenza e quella dell’ontologia. Non ci potremmo spiegare altrimenti il grande progresso che il cervello-mente ha messo in atto a partire dalle caverne fino alle forme luminose e drammaticamente trasparenti che provengono da una crescita empatica tra mente e spazio, i quali si offrono sempre più ad un piacevole condizionamento trascendentale che li spinge a cercarsi ed a porsi a livelli sempre più alti e funzionali alla vita. L’umanità in evoluzione si adegua sempre più a questi messaggi eidetico-formali che non sono altro che la traduzione di spinte emotive ed intenzionalmente logiche che si esternano,via via, nel processo infinito di trascendenza ontologica. E’ interessante notare l’analogia che intercorre tra la trasformazione del concetto di spazio e l’evoluzione biologica, e con essa della mente, entrambi i quali si esprimono morfologicamente e funzionalmente in organismi sempre più raffinati e complessi, attraverso una serie di fatti negativi e positivi insieme. La strada del progresso investe la storia dello spazio come la filogenesi umana, nella sua biologia. Si è visto, negli anni, un modificarsi del rapporto tra vita biologica e mentale ed ambiente-spazio, che da un rapporto strettamente naturalistico, nel quale si realizzava il confronto esistenza-spazio, attraverso un procedimento di dominio della prima sul secondo, si passa poi ad un rapporto in cui, nonostante la continua evoluzione intenzionale dell’universo e della mente, in termini di divenire trascendentale, quest’ultima (cioè la mente) si lascia intrappolare dalla passione dell’egoità che cerca, attraverso la sensazione del potere, di superare la paura della sua finitezza e soffre perché si sente come un dio-mancato. Possiamo perciò affermare che non esiste uno spazio già bell’e fatto, pronto ad essere utilizzato come esistenza; lo spazio è un ente che attende di essere generato in un incontro empatico e creativo con la mente dell’uomo. Ci sono delle categorie fondamentali, quali lo spazio e il tempo, che determinano la nostra condizione ontologica a prescindere da ogni impegno dichiarato dell’ esistenza e da un suo rapporto dossologico col mondo. Pur tuttavia ogni momento della nostra supposizione esistenziale presuppone un rapporto, apparentemente spontaneo, con la coseità della realtà. Questa comunque non potrebbe porre una sua ipoteca esistentiva se venisse a mancare la presenza dell’io, perciò tutte le categorie dell’essere non possono prescindere, in senso trascendentale, dall’esistenza stessa che si determina, in un atto di presupposto, tra il pensiero (perciò una mente, la soggettività ) e il pensato (l’alterità, l’oggettività). Cerchiamo intanto di dare una definizione di tali categorie, senza prescindere, il che sarebbe in ogni caso impossibile, dalla loro segreta compenetrazione, che non consente alcuna definizione prescindente le specifiche situazioni esistenziali ed assolute, nelle quali l’esserci si lega segretamente con l’essere. Iniziamo col dire che io non potrei certamente affrontare una siffatta analisi teleologica se non disponessi di una compattezza mentale che mi consente di stare, in un rapporto empatico, in me stesso e nella realtà oggettiva, quindi in una padronanza fenomenologia della mia condizione esistentiva che attraverso la sua esistentività presuppone una esistenza, dentro la quale subisce prima di ogni scelta la presenza del mondo. L’io pensa e vive attraverso il suo cervello, che per la sua composizione materiale, strutturalmente fisica e chimica, si propone inizialmente con la sua fisicità, in termini positivistici e riduzionalistici, ma non può accettare una simile umiliazione che non tiene conto delle emozioni e della specifica conoscenza, che rendono il pensiero oggettivo e soggettivo insieme, senza alcuna disgiunzione o distinzione tra i due concetti, dilatando la sua stessa consistenza verso spazi più ampi che superano le ristrettezze psicologiche della fisicità e pongono l’attenzione del pensatore sulla trascendentalità della sua condizione. Certamente non potremmo pensare, come non potremmo fare nessun’altra cosa, se non usufruissimo di un organo (il cervello) dentro il quale si elaborano gli stimoli afferenti, in un ampio gioco di sinapsi interneuroniche, consentite da mediatori chimici agenti sui recettori specifici, che rendono possibile un’area associativa e di risposta efferente, mediante la quale possiamo affermare la nostra esistenza. Nonostante tutto questo, la nostra stessa esistenza prescinde, con la sua fisicità, la sua stessa fisicità, rendendola possibile e confermabile solo col suo atto assoluto di esistenza, che presuppone l’esistenza degli altri e del mondo, dentro cui ha un senso l’esistenza singola pensante. In tal senso la mente sta nel cranio, ma anche fuori di esso; si concentra nella sua fisicità e si diluisce nelle emozioni e nelle infinite traslazioni. Nell’atto intelligente di conoscere, noi conosciamo oggettivamente, ma anche soggettivamente : possiamo dire che questo è un tavolo, perché possediamo una struttura eidetica di tavolo, ma ciascuno, in situazione, lo vede dalla sua angolatura e lo adatta alle sue specifiche emozioni; un allegro commensale percepirà il tavolo come stato edonistico, a partire dalle gustose vivande che espone, in certi casi completamente alienato dal primato del piacere. In situazione diversa, per esempio un tavolo chirurgico sopra il quale sta adagiato ed inerme un corpo sofferente, che attende di essere operato, è il dolore ed il terrore della morte che oscurano il concetto di tavolo. Potremmo andare avanti con la descrizione di situazioni in cui spazio e mente si confrontano senza raggiungere mai una regola conclusiva della conoscenza, dimostrando così una specificità oggettiva della mente, ma anche una sua trascendentalità soggettiva, attraverso le quali lo spazio si crea nella percezione e diventa insieme creatore del percepente. Thomas Nagel ricorda che anche un pipistrello, quale mammifero, ha una sua esperienza, ma sappiamo che la sua attività percettiva è diversa dalla nostra che si inizia con la sensazione visiva, essendo legata alla registrazione dei riflessi che provengono dagli oggetti esterni, con un procedimento ecogoniometrico; non sapremo però mai come il pipistrello percepisce e vive lo spazio esterno, in quanto la sua attività ecogoniometrica è frutto della nostra deduzione scientifica e perciò è la nostra percezione di spazio che attribuiamo, seppure supportata scientificamente, al pipistrello. Possiamo dire che inizialmente la mente, l’ipseità, si trova davanti uno spazio “vuoto”, cioè privo di contenuti e di costruzioni : è l’intenzionalità, con la quale la mente si distribuisce gli oggetti della conoscenza, l’in-sé, consentendo alla coscienza, il per-sé, di entrare in un rapporto costruttivo e teleologico con la realtà e con l’alterità. Iniziamo col dire che tra mente e spazio esiste un rapporto diretto di normale fattità, che caratterizza i valori e la definizione di vita. La stessa percezione propriocettiva dell’io è consentita dalla percezione innata di distinzione tra spazio interiore e spazio esterno alla mente, nella cui relazione si svolge tutta l’attività dell’esistenza. Per esempio il rapporto tra mente e spazio si identifica istintivamente in un pastore che vive normalmente sui monti, dove gli spazi si dilatano smisuratamente, per guidare il suo gregge, in un principio di vita; lo stesso rapporto, invece, produce, in un carcerato che vive il suo tempo dentro una cella del carcere, un principio negativo di morte. Un ragazzo che si sottopone ad un acido (LSD) riceve una strutturale deformazione della coscienza che comporta un complesso dismorfismo dello spazio. Permane la familiarità delle cose, ma esse perdono la consistenza categoriale, si discostano improvvisamente da un’ordinata disposizione spaziale e temporale, facendo perdere alla coscienza il potere di giudicare e di adottare la critica nei confronti del mondo esterno. Allora un salto dal ponte è come un gioco, facilmente eseguibile, che conduce a morte. Lo stesso accade nella mente di un dissociato, dove il mondo oggettivo si polverizza per rinascere in forma distorta rispetto alla natura, ma ben strutturato in un delirio. Abbiamo visto come lo spazio si propone, si trasforma e scompare a seconda della diversa relazione attraverso la quale si confronta con la mente, subendo una diversa interpretazione che, pur confermando la precedenza eidetica del per-sé, non potrà mai prescindere dall’in-sé se vuole realizzare la sua essenza. Nel buio della notte la mente si ripiega su se stessa e spariscono i profili spaziali delle cose. La notte non è spazio oggettivo, ma riesce a nullificare l’io, i suoi pensieri e le sue emozioni, assopendo tutto in un silenzio senza contorni. Lo spazio è lì, solo e vuoto, assente e silenzioso, essente e nulla insieme : la sua esistenza è legata alla mia, di io pensante-già-pensato, di mente oggetto di altre menti, di psicologia e di ontologia; tuttavia inizia ad esistere nello stesso istante in cui io percepisco la mia esistenza attraverso le cose. Cammino sul bordo del Tevere e vedo davanti a me la cupola di S.Pietro; so di trovarmi a Roma, ed oltre a questo la cupola mi ricorda la santità di Pietro, quindi la chiesa, la religione e la coscienza con i suoi valori. Lo spazio della fisicità apre in me lo spazio dei valori e della santità. Cosa succede nelle coscienze delle menti che percepiscono le brutture ambientali e spaziali di un’esistenza emarginata e violenta? E perché i sogni hanno scelto, nella mente, uno spazio che si nega come spazio oggettivo, riducendo l’io nello spazio dell’interiorità? Perché la fantasia cerca il superamento di un disagio ambientale e mentale nella creazione di spazi e relazioni infiniti, che la normale percezione esistenziale non consente? Ed infine perché l’uomo ha scelto lo spazio dell’economia e del potere materiale, a scapito dello spazio dello spirito? Da queste domande deriverà il destino dell’uomo : deve abbandonare il travaglio del sentirsi irreparabilmente un dio mancato ed avere il terrore della morte; deve invece scoprire l’unicità dello spazio e del tempo, interiorizzandoli nella coscienza e vivendoli come categorie universali.
Prof. Antonio Vento |
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