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LA SINDROME DI OMERO
“Una
leggenda dice che Omero sarebbe morto di dolore per non avere saputo
sciogliere un enigma a lui proposto da un pescatore” (Francesco Perri:
Dizionario di MITOLOGIA CLASSICA, pag. 301).
Perché il grande poeta, cantore dell’epopea di Troia, autore dei
capolavori della poesia classica, Iliade e Odissea, eccelsa mente
dell’arte fino a spingere i critici a considerare che non si sia
trattato di un solo poeta, ma di più aedi, che hanno trasmesso a voce i
due poemi, è morto di dolore per non aver saputo rispondere ad un banale
indovinello? Omero aveva creato personaggi di rilievo para-umano, quasi
semidei, come Achille, Ettore e Ulisse, in un clima di saggezza e di
avventura che ricordano e investono gli uomini e gli dei. Se in Omero il
mito è grande, non può che essere grande anche il senso della vita e
della morte; accettare la mediocrità o la banalità è come non fare parte
di quella visione del mondo e della vita, ma appartenere più alle cose
amorfe che ai significati dell’esistere. Il significato del nome del
grande rapsodo, cioè Omero, è “ostaggio”. Ostaggio di chi? Del mito, che
per natura non è né dimostrazione né evidenza: la sua unica garanzia sta
nella sua forza d’essere. L’Essere si estrinseca come possibilità di
libertà, che a sua volta, in quanto negazione del precostituito, è
negatività. Ma è insieme positività in quanto possibilità trascendentale
di scoprire l’essere. Perciò la libertà, a seconda del punto di vista da
cui si considera, può essere libertà di cogliere l’essere nella sua
essenza o violenza, come rifiuto della negatività della realtà. Omero,
nella scelta della cultura come valore primario, cioè mito, è
positività, ma nel suo ruolo di rifiuto della realtà, intesa come
anti-mito e quindi anti-cultura o cultura della storia, è negatività e
quindi violenza: un kamikaze come personificazione del valore della
difesa della patria è positività, ma come anti-storia è costretto a
sacrificare la positività dell’essere per un principio negativo e
distruttivo della realtà negativa della storia.
In Psichiatria “La Sindrome di Omero” si riferisce a quei casi che,
partendo da una concezione egoica della personalità, mitologizzata da
sfumature narcisistiche, che a loro volta mascherano un rifiuto dell’essere-per-la-morte,
come condizione di dio-mancato nei confronti della natura, raggiungono
uno stato di delusione e quindi di crollo del mito, cioè del valore,
scivolando in un profondo stato di angoscia che li riporta nel senso di
libertà negativa, cioè di libertà anti-mito, perciò violenza, e
ritorcono lo stato di violenza contro se stessi (col suicidio) o contro
altri (con l’omicidio). Per esempio, capita spesso che uno dei due
coniugi uccide il proprio partner apparentemente senza un chiaro motivo:
in tal caso è la delusione, come perdita del valore, a spingerlo a
compiere tale azione violenta; è “La Sindrome di Omero”. La stessa cosa
avviene, per esempio, quando una ragazza si suicida perché perde il
contatto diretto col sentimento di famiglia, come valore giudicante, a
causa di un personale fallimento, che mette in discussione il principio
narcisistico di egoità, che non può accettare il senso di delusione o di
fallimento rispetto ai principi egoici. In entrambi i casi pesa però la
presenza frustrante del giudizio, che negativizza in forma globale il
principio di libertà, come fallimento e come perdita di autonomia. In
tal senso potrebbe rientrare nella “Sindrome di Omero” anche il disturbo
alimentare, come senso di sconfitta rispetto ai valori, male
interpretati dalla famiglia che, in questi casi si regge quasi sempre su
principi narcisistici e giudicanti verso gli altri, e quindi anche come
perdita di autonomia: in tal caso non si ha la capacità di un approccio
lesivo radicale, contro se stessi o contro gli altri, e si sceglie la
via della negazione della propria vita, a partire dalla fisicità, e del
rifiuto del giudizio, ribaltandolo come messaggio paranoideo contro la
famiglia quale falso valore, che si regge invece sul tentativo di
giudicare, per esercitare un ruolo di potere psicologico;
paradossalmente, in questi casi, ci troviamo di fronte ad un concetto di
famiglia che riveste abusivamente il ruolo di valore giudicante per
nascondere la fragilità interna rispetto ai figli e rispetto alla
microsocietà. In questi casi, sopra descritti, si sceglie la violenza
come tentativo di salvare l’essere distruggendo dell’essere, si crede di
dover eliminare la diversità dalla superficie dell’essere, cioè la
negatività: anticamente venivano compiuti i supplizi gettando nel mare o
nel fuoco esseri ritenuti negativi per l’essere, intendendo farli
ritornare all’essere, con un rientro nella natura, onde ricostruire
l’ordine totale contro la legalità parziale. In un certo senso ogni
violenza ha come giustificazione ultima l’unità, il ritorno all’Essere.
La definizione di “sindrome di Omero” è frutto originale di mie
conclusioni psicopatologiche tratte da casi analizzati da me con la
terapia.
Considerando che ogni terapia richiede un approccio farmacologico,
rispondente ai canoni di una Psichiatria intesa come branca della
medicina, l’interpretazione fenomenologico esistenziale è senz’altro
l’approccio più idoneo per la comprensione delle dinamiche che hanno
causato il disturbo, evitando ogni interpretazione preconcetta, dentro
la quale spesso cadono le diverse psicoterapie di definizione scolastica
e metodologica.
Prof. Antonio Vento
09-07-08
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