Università degli studi di Roma La Sapienza |
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MANIFESTO DELL’UOMO MODERNO IL CAMBIAMENTO Concetto di cambiamento. Ogni cambiamento storico va inteso come modificazione dello stato esistenziale sgradevole, privo di felicità, dentro il quale si è costretti a vivere per decisione di un governo o di una minoranza. Si cambia per conquistare una nuova libertà per un uomo nuovo libero; una nuova libertà che non appartiene solo all’uomo singolo, ma a tutti gli uomini di quel paese, non potendo sussistere una libertà individuale se non esiste la libertà di tutti, dentro cui il singolo acquista dignità e certezza storica. La libertà è sempre frutto di un pensiero collettivo, perché pensare in molti è sempre meglio che pensare da soli, affinché il pensiero si possa tramutare in azione: un singolo pensiero, senza risonanza, può essere anche un profondo pensiero, ma se non trova consenso generale resta nell’ambito di un valore intellettivo, di consistenza solipsistica. Un’idea diventa generale e, sotto questo aspetto, universale, quindi azione oltre che pensiero afinalistico, quando esprime in sé l’incontro tra una forte esigenza soggettiva e un profondo stato oggettivo di insofferenza e di alienazione insopportabili. Il superamento dialettico di questi due momenti (quello soggettivo e quello oggettivo) conduce ad un bisogno più alto di libertà, che è capace di realizzare una condizione generale di felicità e di esistenza liberata dall’alienazione e dalle frustrazioni. Partiamo
da un’idea di sincronismo storico: il governo si dichiara disponibile a
sostenere i lavoratori a mantenere in vita le azioni con l’autogestione
(superando così il concetto di crisi e di chiusura aziendale). LA LIBERTA’: la libertà esprime sempre uno stato di superamento dell’io e di una serie di oggetti e di situazioni che sono in stretta relazione con l’io stesso. Ogni situazione rappresenta un insieme di rapporti che l’io ha con le cose e con le relazioni tra lui e le cose stesse, mediante le quali si è concretizzata la situazione che sta per essere superata. Su tale meccanismo dialettico si fonda il principio di libertà. Le istituzioni incontrollate dalla gente e quindi la politica, che si arroga il compito di tenerle sotto controllo, rappresentano un falso principio di democrazia, avendo perso la gente il controllo di tali istituti immediatamente dopo aver affidato astrattamente il mandato ad un governo mediante il voto. Eletti, quasi sempre mediante marchingegni antidemocratici e manipolati, col supporto della ricchezza e della tecnologia, i parlamentari finiscono di dialogare col popolo che li ha eletti (attraverso metodi scorretti ed alienanti) per accordarsi tra di loro sul come governare e sul come gestire la realtà, decidendo sulla pelle degli elettori, che subiscono senza essere consultati le loro decisioni. Si decidono le tasse, gli oneri sociali e le regole di convivenza tenendo all’oscuro gli elettori, che sono costretti in un ruolo di sottomissione legalizzata come vera e propria forma di schiavitù. Si creano da soli le banche e si nominano i banchieri e la stessa giustizia viene relegata in un preciso ruolo di garanzia e di protezione del sistema politico e dei politici che lo rappresentano. Da questo momento i cittadini sono le vittime designate e perdono il diritto di poter contestare l’operato del governo che viene fatto pesare ingiustamente sui cittadini stessi. Un esempio di ingiustizia e di anti-libertà è il fatto che anche chi non ha un lavoro è costretto a pagare le tasse allo stato che, oltraggiando la stessa Costituzione, gli nega un lavoro. Questa è una forma di moderna schiavitù. Si viene a creare una forte contraddizione tra l’io e i fini che sono sorti dalla sua applicazione, in quanto anche lui fine e soggetto ad un atro fine più grande che è la vita e la sopravvivenza, ad un fine generale che dovrebbe occuparsi del fine comune, che implica la possibilità dignitosa della convivenza e del superamento della semplice utensilità delle cose in sé. La situazione che rappresenta il momento di libertà concreta presuppone la qualità della teticità e non l’astrattismo delle necessità storiche strumentali e corrotte. Solo nella teticità eidetica si può intravedere il principio di libertà, che è libertà in quanto superamento di ciò che si era, ma è anche rappresentazione di qualcosa, come un fine che cessa di essere tale nel suo stesso valore di fine, pronta ad essere superata in direzione di un’altra situazione. La libertà nella vita dell’umanità rappresenta sempre la base della morale: non può esserci una morale se l’uomo non è libero e lo è per condizione; dove sussiste alienazione e schiavitù è perché è stata volutamente ignorata la verità sulla condizione ontologica dell’uomo. Tutti gli uomini “sono condannati alla libertà” essendo cronologicamente protesi tra due momenti assoluti, la nascita e la morte, irriducibili e oscuri: il tempo intermedio gli appartiene; da questo non si può sfuggire se non con la morte e pertanto si è condannati alla sua utilizzazione esistenziale, quindi alla libertà, essendo costretti a scegliere il loro tempo e le loro situazioni, dove la non scelta equivale alla scelta, perché è scelta della non-scelta. Partiamo dal presupposto che l’uomo trovandosi nel mondo incarna una sua fattità ed ha una sua progettualità che si esprime in una serie di superamenti: la sua libertà si manifesta negli atti di superamento, che richiedono un ruolo attivo, d’impegno storico e di coscienza tetica, fuori da ogni sottomissione sociale. Non bisogna però non considerare che in ogni superamento c’è la conservazione di ciò che si era e quindi cambiare vuol dire migliorare lo stato che precede. Se l’uomo si sente oppresso all’interno di un sistema si può liberare solo grazie alla sua oppressione che gli consente di assumersi una nuova responsabilità di fronte al mondo. Se può conquistare la sua libertà è solo dovuto al fatto che si scopre schiavo e che tale scoperta lo pone con se stesso e con gli altri in una situazione di umiliazione e di alienazione che vuole abbattere e superare. Si trova incastrato tra ciò che non si vuole e ciò che si vuole raggiungere per liberarsi dal condizionamento e dall’alienazione. Quindi il suo bisogno di libertà lo costringe ad accettare lo stato di negatività in cui si trova potendo mettere in atto un progetto di superamento solo attraverso la coscienza di tale stato di negatività. Tutto questo consente all’uomo di restare all’interno del suo ruolo umano che lo mette alla prova davanti alla negatività che viene dall’esterno, cioè dalla storia, condannandolo alla libertà, cioè a intraprendere un processo di cambiamento, tendente al superamento della situazione in atto. La vita dell’uomo è perciò un continuo cambiamento di ciò che si è, cioè superamento di quanto l’esterno gli impone a sua insaputa e che può superare solo dopo aver preso coscienza di tale imposizione. L’esistenza, alla fine, è un continuo confrontarsi tra ciò che si è e ciò che si vuole essere e questo rappresenta uno stato di continua stanchezza: la stessa libertà rappresenta una fatica che richiede, per il suo raggiungimento, un impegno e un rischio esistenziale per cose e situazioni di cui il singolo non è responsabile. L’uomo è quindi totalmente determinato e totalmente libero, perché obbligato ad accettare il suo determinismo da cui potrà partire per mettere in atto il raggiungimento della sua libertà. LA MORALE:
Cominciamo col dire che il superamento situazionale e continuo della
storia e quindi ogni cambiamento non hanno una morale, perché essi si
pongono sempre un fine che richiede, a sua volta, un mezzo, nei quali,
data la concretezza del superamento, gli obblighi da mettere in atto
sono suggeriti dal fine stesso e quindi viene meno l’idea di libertà.
All’interno della società di solito il rapporto tra cittadino e ambiente
in cui vive prende il posto della morale. Per definizione, la morale è
qualcosa di astratto: è rappresentata dal fine stesso che l’uomo si pone
quando non ha un fine. E’ il modo stesso di stare insieme, al di là
della condizione ontologica. Quindi si può parlare di morale quando si
stabilisce un riconoscimento formale interpersonale di valore
universale, che sostituisce la particolarità dell’esserci, in cui esiste
solo un’ombra di libertà rappresentata dalla concretezza della
situazione, che varia tra i diversi individui senza mai raggiungere un
livello-valore di universalità assoluta. Ma dato che la morale, come
abbiamo detto, raggiunge potenzialmente il suo livello di libertà solo
in astratto, anche la morale stessa, nel suo significato universale, è
astratta. Pertanto si manifesta astrattamente nella religione, nella
politica e nella storia, raggiungendo un valore di universalità
provvisoria quando queste si fermano. Perciò dato che la morale non ha
un suo reale contenuto concreto viene concepita all’interno delle
diverse situazioni, nelle quali cerca una sua specifica identità, che
però non si ferma mai in se stessa e cerca, col superamento, una sua
nuova potenzialità. Attraverso il cambiamento che si concretizza nel
superamento delle situazioni concrete, nasce la storia che implica
sempre una certa concezione dell’uomo, anch’esso mutevole attraverso le
situazioni, reso astratto dagli eventi che lo condizionano, privandolo
di una sua dignità. E’ quindi una morale astratta che trova concretezza
solo in una falsa morale del concreto affidata all’astrattismo della
religione, della politica e della storia, che ne traggono i vantaggi. 1-La morale cristiana: la morale cristiana presuppone la negazione dell’uomo stesso e l’affermazione di una indiscutibile supremazia divina. L’uomo trovandosi all’interno della natura e scoprendosi in essa limitato, pur credendo nella sua potenzialità che gli consente di porsi come fine il dominio della natura, accetta la sua negazione quale ente universale e infinito e si costruisce un modello concreto di potere, che gli consente di provare il sentimento di superamento dello stato angosciante che avverte nei confronti della sua limitatezza e della sua finitezza, quale dio mancato, costruendosi un fantasioso e fittizio legame con l’eternità mediante un mezzo concreto e storico, che lo salva dalla sua sensoriale incapacità di scoprirsi infinito ed eterno, cioè dio, e di usufruire della presunta potenza divina senza essere lui divino, cioè il cristianesimo e le religioni. La religione giustifica il soggetto liberandolo dai suoi ontologici limiti che lo schiavizzano socialmente col supporto teologico utilizzato dalle religioni. Quale morale religiosa può garantire la libertà dell’uomo quando la libertà non può garantire se stessa perché la sua unica concretezza storica è insita nella sua immanenza, non essendo consentito all’uomo di avvertire il senso dell’infinito e dell’eterno, se non come concetto partorito dal suo cervello secondo i canoni della logica e della scienza? Tutto ciò che si pone come verità attraverso il rifiuto della realtà naturale non è altro che un tentativo di astrazione utile per il raggiungimento di un tipo di universalità il cui mezzo e il cui fine è solo il presupposto di un bisogno profondo di superare la paura e l’irreversibilità della morte. Pertanto la morale cristiana è morale della morte, tant’è vero che si fonda sul sacrificio e sulla crocifissione del cristo-uomo. Una simile morale costringe l’uomo a sobbarcarsi tutti i sacrifici della società in quanto, attraverso tali sacrifici, gli si fa credere che possa aspirare ad una presunta salvezza post mortem. E’ tutto un inganno e pertanto la morale cristiana non ha annullato la schiavitù delle genti sottomesse dall’impero romano, ma ha giustificato tale schiavitù chiamando in causa lo spirito dell’uomo, attribuendogli una consistenza eterna che non ha, ma che si garantisce teoricamente con un presunto esercizio della bontà, in opposizione al male. Però bene e male non sono che prodotti della mente dell’uomo, attraverso i quali una minoranza si garantisce il potere e i suoi privilegi sulla maggioranza. 2-La morale degli schiavi: gli uomini sottomessi al potere di un padrone sono sottomessi in quanto oltre ad essere io sono altri, gli altri schiavi, omologati in uno stesso destino che fa nascere il senso della rassegnazione, proveniente dal fatto che ognuno fa quello che vuole il padrone, avendo in sé la presenza del padrone stesso che inizialmente è solo forza, ma che gli uomini, con la loro sottomissione al suo programma, danno a tale forza un valore di diritto sociale, che può esistere solo a partire dalla sottomissione della forza lavoro. Sotto questo aspetto è proprio la morale degli schiavi che rende possibile il potere dei padroni. In questo ruolo di sottomissione, i sottomessi invece di liberarsi dal padrone si legano ancora di più a lui. Gli stessi padroni colgono l’opportunità della rassegnazione di chi è sottomesso e costruiscono un insegnamento di tale rassegnazione per rafforzare il loro potere e i loro privilegi. Più, per esempio, il padrone farà credere ai suoi dipendenti che il lavoro è un privilegio generale che si struttura sui sacrifici di tutti e sulla rassegnazione, più si rafforzerà il suo ruolo di gestore e di padrone del lavoro degli altri fino a costringerli ad accettare qualunque tipo di sofferenza e di umiliazione, perfino il licenziamento. Poiché i lavoratori sottomessi ricevono dall’esterno questa cultura della rassegnazione, messa tecnicamente in atto dal padrone, non sentiranno mai tale morale come liberamente scelta da loro, ma l’avvertiranno come morale degli schiavi, il cui compito è quello di controllarli e di addormentarli, ponendoli alla mercé del padrone, che traduce questo tipo di ordine repressivo in un ordine presentato come contratto che li lega in un unico destino. Dietro questa morale della rassegnazione si annida una subdola condizione, umana e disumana insieme, di rapporto tra l’io e il mondo, come se questo rapporto fosse l’unico rapporto possibile per la convivenza. Invece in tale rapporto si annida il senso di scacco assoluto dell’umanità, vista dai lavoratori e in genere da tutti i sottomessi, e come piena affermazione dal padrone, che cerca in qualche modo di salvare l’uomo per un suo fine. Ma questo è possibile solo se si da un valore allo scacco e tale valore si può raggiungere con un atto di superamento situazionale. Con la ribellione l’uomo nega l’uomo e supera il confronto schiavitù-padrone nel raggiungimento della libertà. Si tratta di salire da un diritto inferiore (il lavoro e la sottomissione) ad un diritto superiore, la libertà e il mondo. In questo processo si annida la morale della schiavitù, per un riscatto ideale. 3-La morale del padrone: tra il padrone e dio passa una similarità di decisione nei confronti degli schiavi, cioè di tutti i soggetti sottomessi che cercano la felicità perché coscienti della loro sudditanza. Si viene così a stabilire, tra padrone e sottomessi (nel nostro caso lavoratori e disoccupati) una specie di tacito contratto di solidarietà, nel quale sia il padrone, sia il sottoposto si persuadono che tale solidarietà rende entrambi migliori e mediante questo sentimento reciproco si gettano le basi di una naturale gerarchia. Per meglio rendere comprensibile il concetto di morale del padrone, cito alcuni appunti di J.P. Sartre riferiti al Governatore della Carolina del Sud Hammond che scriveva: “Tutti i sistemi sociali richiedono una classe addetta ai lavori umili ed alle fatiche della vita. Questa classe deve possedere un livello di intelligenza e di abilità molto poco elevato. Ciò che si esige da essa è il vigore, la docilità e la fedeltà. Se non possiederete questa classe, non possiederete quell’altra classe che conduce al progresso, alla civiltà, alla raffinatezza. Essa costituisce le vere fondamenta della società e del governo politico e, se non lo fate su queste fondamenta, potrete cercare di costruire l’una e l’altro tanto quanto una casa per aria. Fortunatamente il Sud ha trovato una razza adatta a queste condizioni...Noi la utilizziamo per i nostri scopi e la chiamiamo la razza degli schiavi”. Può sembrare, a prima vista, che tali scritti o tali pensieri erano pensieri e scritti del passato, di un mondo ormai sepolto, ma così non è perché lo stato di sottomissione per necessità di sopravvivenza, ai nostri giorni si è amplificato e complicato, essendosi inseriti, nella presunzione di uguaglianza, sentimenti subdoli di morale storica, che non cessa di discriminare e di alienare, sia socialmente, sia economicamente. Anzi la nuova classe padronale, oggi definita imprenditoriale per evitare che si possa pensare che tra padroni e sottoposti ci possa ancora essere uno stato di sfruttamento e di conflittualità, che produrrebbe una condizione di rischio per i padroni, dato che una siffatta situazione alienante presuppone un processo di superamento dell’alienazione, nella direzione della ricerca di una vita libera e dignitosa, cerca di offrire un’immagine di sé, vittimistica e umanamente protesa verso la protezione dei dipendenti lavoratori e disoccupati, spostando il perenne rapporto di distacco e di oppressione tra loro e i sottoposti in un loro rapporto di sofferenza e di frustrazione con lo stato. Pongono in atto una morale del loro sacrificio per evitare che la storia e la pazienza degli sfruttati possano capovolgere o annullare il rapporto di potere, specie con i disoccupati e con i giovani, che rappresentano la nuova vera classe degli sfruttati e degli alienati, non riuscendo ad applicare nella pratica e nel lavoro le loro conoscenze, frutto di lunghi studi e di nuova cultura, basata sulla tecnologia e sull’universalità concettuale. L’atteggiamento dei padroni da una parte mira a ricostituire una loro saldezza sociale, mediante l’impegno delle banche a loro favore e col privilegio fiscale (o con la sua evasione), dall’altra pone le basi di una nuova morale il cui scopo è quello di far sentire responsabili di ogni fallimento sociale o politico la gente sottomessa e sfruttata, elaborando teorie economiche, con la complicità degli economisti, dei politici di potere (col capro espiatorio dei più stupidi e dei corrotti) e dei mezzi di comunicazione asserviti al potere nei suoi diversi livelli di intromissione socio-economica. 4-La morale della libertà: La rassegnazione degli sfruttati è una totale complicità con il padrone. La struttura della rassegnazione sta nel voler sacrificare se stessi più che il mondo. E’ come se i sottomessi si volessero adattare biologicamente alla realtà. In tal modo i progetti e le scelte degli uomini scivolano al di fuori delle preoccupazioni ed acquistano un significato romantico di adattamento alla realtà, che nulla ha a che vedere con la situazione morale oggettiva, rientrando invece in un contesto fittizio e dissociato, passista e accomodante, che perde il contatto con la realtà del vissuto per diventare quasi una recita dell’esistenza, fingendo l’impossibile per lasciare uno spazio alla possibilità di rivendicazione. Come possiamo constatare, c’è un silenzioso e lento adattamento al sociale, che tranquillizza i padroni e giustifica, per loro interesse, lo stato di sottomissione alla storia e alle situazioni socio-economiche vigenti: è un ritardo nel raggiungimento di una nuova condizione di libertà e di una sua morale. Questa è la morale della libertà perché non chiude i lavoratori e la gente in una condizione di auto disagio senza scampo, come in una prigione, lasciandosi il tempo ed il modo di poter cambiare stato, modificandosi a suo piacimento e senza condizionamenti esterni, secondo le diverse circostanze. E’ attraverso la negatività di uno stato morale subìto che si prepara una nuova forma di morale, che è morale di libertà in quanto si realizza con moderazione e riflessione in un processo di lenta presa di coscienza e di negazione conseguente della negatività di una situazione che si manifestava superata e ingiusta. L’uomo si pone di fronte alla realtà con un suo progetto esistenziale che esprime i suoi intimi desideri in una serie di trascendenze concrete, che testimoniano il bisogno di affermare tutta la trascendenza umana, dato che le singole trascendenze non possono esistere senza un supporto reale di trascendenza: l’uomo passa da una situazione ad un’altra perché si rende conto che la sua libertà è un continuo trasformarsi e adattarsi al fine di avvicinarsi sempre più al mondo che gli chiede e gli consente le trascendenze. Se non ci fosse una realtà a cui tendere non ci sarebbe bisogno di alcuna trascendenza e quindi non avrebbe senso una morale della libertà. Se, per esempio, ci trovassimo in una condizione di non disagio non ci sentiremmo costretti ad alcun cambiamento situazionale perché avvertiremmo il piacere dell’adattamento; in tal caso saremmo condizionati dalla situazione esistenziale. Ma se, all’improvviso cambiassero le condizioni di vita e ci trovassimo in un abissale stato di bisogno, il nostro atteggiamento verso la realtà e verso il modo stesso di esistere in situazione cambierebbe radicalmente, alla ricerca di una nuova morale, vicina al benessere e capace di esprimere un nuovo sentimento di libertà morale. Quasi sempre la gente rassegnata rifiuta il cambiamento perché si scopre ridotta alla volontà del padrone o di un sistema politico, perché sente che solo in quello stato imposto risiede la sua unica possibilità di sentirsi umano, come se la situazione di rassegnazione rappresentasse l’essenza del suo destino. Allora la rassegnazione acquista il valore di opportunità di vita e quindi di saggezza, ritenendola non solo una condizione inalienabile, ma anche possibilità di rinnovamento e quindi di superamento dello stato di alienazione, nel momento in cui diventa disumana e alienante. Nella rassegnazione ogni uomo sceglie se stesso nella sua attuale consistenza, il padrone si sceglie come padrone e il sottomesso si scegli come sottomesso, perché ogni condizione presenta un aspetto sociale (o convenzionale) e un aspetto naturale. E’ solo quando il dato soggettivo (lo schiavo e il padrone) non collima più col dato oggettivo (la schiavitù alienante dello schiavo e la violenza arrogante del padrone) che si pone seriamente una domanda di cambiamento e di trascendenza storica. In tale atto di cambiamento e di superamento trascendente si struttura la morale di libertà. 5-La morale della violenza: Nella sua rassegnazione l’umanità sottomessa ripone la priorità ontologica e morale nel padrone perché lui è altro rispetto agli uomini che lo riconoscono come padrone e quindi è proprio dalla rassegnazione che nasce la morale della negazione di se stessi, avendo riposto nel padrone il principio della loro salvezza, ritenendolo essenziale per la propria esistenza. La rassegnazione, che riconosce solo la forza del padrone, non è che una forma di mistificazione perché nasce dalla falsa idea che il padrone rappresenti le regole di convivenza sociale e le leggi che lui garantisce. Quindi è proprio la classe dei sottomessi che difende e garantisce la classe dei padroni i quali si fanno forti della morale della rassegnazione, inculcandola, come insegnamento, sempre più ai sottomessi. Perciò la morale della rassegnazione arriva ai rassegnati dall’esterno e per questo può meglio condizionare e confondere le loro coscienze. L’uomo, in questo sistema di cose, con tutte le regole che lui ha posto per la gestione e per il dominio della società, si sente vittima di se stesso, avendo lasciato incautamente il compito ad una minoranza, che diventa sempre più potente, la gestione di tale società e delle sue condizioni di vita. Quando si rende conto che l’esistenza è diventata invivibile per la continua oppressione che riceve dall’esterno, accantona la sua morale della rassegnazione e si ribella, mettendo in atto una nuova morale, quella della violenza e della distruzione. Quando l’uomo sottomesso si rende conto che la sua alienazione è conseguenza logica della sua complicità con la teoria colpevolizzante di disumanizzazione dell’uomo, messa in atto dal padrone e accettata passivamente dai suoi dipendenti, non resta che una sola possibilità: quella della disubbidienza e della ribellione nei confronti delle regole della società in cui si vive. Tale rifiuto del sistema sociale, fino a che non sarà inteso come rifiuto collettivo, accettato da tutti i cittadini sottomessi al regime imposto da chi governa, avrà un suo significato di anarchismo individuale che non manifesta una concreta possibilità di superamento della situazione negativa. Nella sua manifestazione individuale, la negazione di un sistema sociale si caratterizza nella risposta violenta verso il padrone o verso i suoi diretti difensori, con la loro uccisione o con un atto aggressivo verso le strutture di lavoro o verso il suo patrimonio, di tipo terroristico, da cui però emerge una conseguente morale umana, attraverso la presa di coscienza della necessaria implicazione dell’io in un atto di manifestazione violenta, che non si esaurisce in un semplice atto di incomprensibile violenza. Per capire meglio il rifiuto violento che l’io sottomesso esprime con la ricerca di un superamento della condizione negativa dell’esistenza, dobbiamo capire il livello di esasperazione dell’uomo sottomesso ai poteri e il suo bisogno di liberazione nei confronti di tale schiavitù. La situazione di schiavitù avvertita dagli uomini è comprensibile perché mediata dai suoi bisogni, come la povertà, la fame, la disoccupazione, le frustrazioni lavorative, la negazione del senso umano della vita e della dignità sociale. Ma dato che la difficoltà di porre in essere il senso umano della vita ed il principio di libertà impedisce al singolo ed alla collettività di sentirsi esseri umani, nasce spontaneo un sentimento di rifiuto e di violenza verso i programmi che formalizzano tale condizione dell’uomo sottomesso. In tali condizioni di esistenza umiliata ed esasperata, che vede contrapposto un sistema armonico e ben istituzionalizzato e una alienata e disturbata condizione dell’uomo, che spesso è costretto ad accettare passivamente la negatività di un sistema sociale perché teme di negare se stesso con la negazione del sistema organizzativo della società dentro la quale vive, viene spontaneo decidersi di negare e distruggere l’ordine, le istituzioni e i patrimoni dentro cui si vive in maniera alienata. Quello che però talvolta impedisce il raggiungimento di un fine organico e costruttivo, che consente di superare il concetto di morale della violenza fine a se stessa, è la mancanza di cultura e di capacità organizzativa dentro le quali i soggetti, alienati e ribelli nei confronti del sistema rifiutato, si trovano a vivere e a soffrire. Si viene così ad instaurare una nuova condizione di rifiuto dell’ordine e di instaurazione di una diversa condizione di esistenza nella violenza e nel disordine. In tal caso l’uomo si pone contro l’uomo per raggiungere uno stato di esistenza che consente di vivere in maniera più umana e fuori dall’angoscia della schiavitù. 6-La morale democratica: nasce come situazione spontanea di crescita e di concretizzazione di una morale a fine universale di per sé astratta, e tende alla realizzazione di una società nella quale la negatività diventa positività senza ricorrere a mezzi violenti o distruttivi. Questa morale utilizza una serie di superamenti educativi, attraverso un metodo di trascendenza che si sostiene con la considerazione, poco dialettica, di connivenza tra padroni e sudditi, che non mettono in discussione la diversità sociale o economica, ma si stabilizzano su un concetto di conformità naturale, senza stabilire alcun principio di responsabilità, pur avendo conoscenza della diversità di interpretazione della storia e dei ruoli degli uomini con le diverse istituzioni. Possiamo affermare che la morale democratica, che assomma varie forme di morale della rinuncia e della sottomissione, è una forma di morale che nega la morale universale e si concretizza in una forma di morale di falsa convivenza e di rappacificazione dello sfruttamento. Nel concetto di morale democratica, che si avvale di un principio di partecipazione collettiva ad una forma di convivenza concreta, riscontriamo l’ipocrisia dell’idea di libertà che nasconde la sottomissione della libertà dell’individuo in una specie di definizione ontologica di libertà che si regge non su un dato logico, ma su una falsa concezione di libertà e di pensiero conservanti le radici della diversificazione e del potere dei pochi sui molti. La morale democratica, che pone le sue fondamenta nel concetto di uguaglianza naturale, senza tener conto delle diversità mentali e operative esistenti all’interno di una società, getta un velo sulla condizione dell’uomo, facendo credere, con strumenti assolutistici come la religione e la cultura storica, che l’uguaglianza non si pone sul piano della comune appartenenza alla natura, nella quale si evidenziano i normali bisogni (mangiare, curare il proprio corpo, garantire la conservazione della specie, praticare il principio del piacere e della sessualità, ammettere ontologicamente l’esistenza dell’eterosessualità, ecc.), ma sull’abilità sociale di governare mediante una distinzione dei ruoli, con la formazione delle classi e dei falsi privilegi, che volta per volta vengono posti come naturali diritti umani. In questa ideologia si caratterizza un principio di governabilità basata sui falsi meriti, che non tiene conto della necessità ontologica di un ruolo centrale dell’uomo nella realtà, che viene occupato dal potere economico, con tutti i privilegi che la casta del potere ne ricava a scapito degli altri cittadini. Si riscontra una specie di dialettica del tutto sulle parti e del futuro sul presente. Ci si serve dell’ambiguità per consentire alla minoranza di contrabbandare i principi di superiorità sociale ed economica, a cui si attribuisce un valore universale, per norme pratiche di convivenza tra le parti, con i principi morali: per esempio, in questi ultimi anni, si è tanto parlato di parità tra i due sessi facendo appello al giusto diritto di partecipazione di tutti alla vita. Apparentemente questo concetto vuole indicare e rivendicare un principio di morale democratica, ma sostanzialmente l’uniformità sul piano morale non è possibile perché tale uniformità negherebbe il valore ontologico e quindi universale della natura. E’ possibile invece sul piano sociale dove le norme e le decisioni politiche sono un diretto prodotto delle classi. Con la parità sociale, giusta per una democratica convivenza, non si realizza uno stato di felicità, considerando pure che la felicità si rivendica negli stati dell’essere-con dove esiste l’infelicità. L’essere-con è solo un’idea universale e teorica di parità e di democrazia perché la sua essenza rimane imprigionata nelle norme e nei condizionamenti politico-sociali ed economiche, dando risalto all’in-sé (perciò all’immanenza) che si diversifica con le regole della materialità e della concretezza astratta del potere, senza mai raggiungere il per-sé, cioè lo stato di coscienza della condizione dell’esserci che mette in atto la trascendenza. 7-La morale universale: Al fine di dare una definizione di morale universale, dobbiamo partire dalla contrapposizione tra storia e morale, ricordando che la morale, come condizione astratta, presupposta dall’ontologia, cioè dalla nostra stessa appartenenza al genere umano, si propone fondamentalmente nei momenti in cui la storia manifesta un calo di concretezza, che può dipendere da una perdita di funzione-guida per cause oggettive o per sua intrinseca difficoltà di comunicare principi e valori. Si dice che la morale rappresenta una condizione di astrattismo esistenziale perché, di solito emerge con maggiore evidenza quando nella storia viene a mancare una chiara finalità ontologica: in simile occasione la morale si propone all’attenzione di tutti come uno scopo che si offre agli uomini quando non si ha più uno scopo nella vita di tutti i giorni e nella storia. Tale morale sostituisce la mancanza di rapporti concreti tra i soggetti che non riescono a comunicare tra di loro e non hanno più la capacità di ipostatizzare il bene in opposizione al male. Perciò compare quando i rapporti interpersonali hanno perso la loro concretezza a favore di un riconoscimento formale della loro universalità. In tal caso la morale consente un libero rapporto formale ed astratto tra gli uomini obbligandoli ad un rispetto generico della libertà potenziale, lasciando insoluto il rapporto che gli uomini devono avere con un contenuto di tale libertà: quindi rispettare in senso indeterminato la libertà generale astratta, lasciando ad ciascuno la potenzialità concreta di un contenuto di tale libertà. Di fronte ad una teoria sociale la morale offre una chiave di comportamento, ma è compito di ciascuno cercare di evitare che ogni scelta concreta possa violare le regole della morale universale che, come abbiamo visto, si fa carico di una concezione assoluta del mondo e della vita. 8-La morale umana: Una morale umana presuppone il fine di una società dove non ci sono sopraffattori e sopraffatti. Per raggiungere un tale stato di convivenza è necessario mettere in atto alcuni mezzi che servono per superare le disuguaglianze e le stesse classi, mediante i quali si può raggiungere un fine comune. Il fine di una morale umana è quello di superare ogni forma di privilegio dei pochi sui molti e mettere in atto una forma di vita comunitaria all’interno della quale ogni uomo si sente parte attiva e interprete della storia, nella piena sensazione di uno stato di libertà assoluta. La chiesa, da più di duemila anni, mantiene il dominio delle coscienze proprio perché consente a ciascuno di sentirsi all’interno di una condizione di esistenza assoluta, oltre ogni senso di finitezza, proiettato in un concetto di libertà generalizzata, astratta e senza appello, perché l’idea stessa di volerla verificare implica la negazione di tale libertà, la cui disponibilità si ipostatizza con la fede. La morale della chiesa cattolica, come pure quella delle altre religioni, si reggono sul principio della negazione della ragione che è costretta a piegarsi di fronte al principio di universalità, essendo una prerogativa dell’astrazione, dove dio stesso si pone come astrazione e quindi negazione dell’uomo. Una morale umana non può esistere se non nell’uomo stesso che scopre e rivendica la sua libertà concreta nella sua stessa umanità. L’uomo scopre se stesso attraverso l’uomo, mentre invece la religione nasconde l’uomo all’uomo destinandolo al dominio della morte, il cui fine non è l’uguaglianza e quindi il raggiungimento di una morale umana, ma è quello di oscurare la logica per l’affermazione di una dimensione astratta e sconosciuta, che presuppone un falso mistero della vita. Una morale umana condanna l’uomo alla libertà, da cui non si può esimere se non vuole cadere in uno stato di nientificazione dove ogni decisione che concerne il suo stato di libertà è stata già presa da chi ha costruito la sua chiesa facendogli credere che attraverso questa chiesa l’uomo può recuperare la sua umanità e la sua libertà. Ogni governo politico, compresa la democrazia, rappresenta una forma di riduzione della libertà degli uomini e di negazione di una morale umana. L’unica forma di morale umana è quella dell’uguaglianza tra tutti gli uomini e di rispetto assoluto della natura: ogni scelta o norma che presuppone un principio di valori anti-natura è, di per sé, un abbattimento del principio di libertà e di morale umana, che si raggiungono col neo-umanesimo, mediante il quale l’uomo ritrova il suo stato di centralità universale. Norme transitorie: E’ chiaro che il raggiungimento di una condizione di esistenza che consenta all’uomo di avvertire un sentimento di libertà assoluta, che non sia quello ingannevole e falso che le religioni impongono col terrorismo psicologico, retto dall’angoscia della morte e dal sentimento di impotenza, che lo fa sentire un dio mancato, non è una facile conquista, anzi si prospetta come impresa drammatica e irraggiungibile. La ricerca di un fine universale, che dia a tutti la sensazione concreta di libertà, ha bisogno di diversi passaggi storici che si superano dialetticamente, come mezzi necessari, per raggiungere il fine. Ogni momento della storia esprime un suo fine. Quello attuale, che vede in atto una grave crisi del capitalismo, non può risolversi con i soliti sacrifici dei sottomessi (la nuova schiavitù), ma con scelte politiche, che per il nostro paese sono quelle di spingere la nostra attenzione culturale e di mercato verso il bacino del Mediterraneo e verso i paesi del Nord Africa. Una tale scelta politica ed economica incontra, in questo momento, alcuni fondamentali ostacoli posti da paesi che mirano a mantenere la supremazia nel Mediterraneo e avvertono il ruolo del nostro paese come una minaccia per i loro interessi imperialistici e di sfruttamento: la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America che hanno tutto l’interesse, per ragioni diverse, a non fare raggiungere all’Europa un livello di grande potenza internazionale e quindi mettono in atto strategie destabilizzanti. La stessa manipolazione della nostra democrazia, a mio avviso, nasconde scelte politiche subdole ed antidemocratiche volute da questi paesi. Come nostra immediata reazione, devono essere messe in atto scelte coraggiose, ma ben mirate, utili per il rilancio della nostra economia e della cultura: 1) Aprire immediatamente le banche nazionali e le risorse finanziarie dello stato alle piccole e medie aziende, per consentire a quanti dimostrino una seria capacità produttiva e di mercato di realizzare i loro progetti. 2) Richiamare il capitale finanziario ed aziendale, trasferito negli altri paesi, in Italia, offrendo (a chi rientra nella nostra economia) un’agevolazione fiscale per almeno dieci anni, consentendo e facilitando proposte di reinvestimento, specie nell’ambito della ricerca e dell’esportazione dei nostri prodotti e della nostra cultura negli altri paesi. 3) Operare tagli consistenti nelle spese politiche e nella burocrazia. 4) Accrescere il nostro ruolo nella realizzazione dell’unità europea e delle sue scelte politiche, finanziarie, strategiche e militari. 5) Curare molto la sicurezza interna dei cittadini (in particolar modo delle parti più deboli) e dei patrimoni culturali ed artistici. Credo che, per non disperderci in programmi infiniti, ma astratti, questi punti strategici siano sufficienti. Mi pare superfluo aggiungere che, per realizzare un simile programma, è propedeutica l’ attuazione di una sana riforma elettorale.
15-03-2013 Antonio Vento Presidente di “Democrazia Diretta” |
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