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ECONOMIA DI  CRISI

L’economia, come la maggior parte delle scienze umane, non può essere considerata una scienza esatta, anche se, per presunzione degli esperti, si arroga l’appellativo di scienza delle finanze, di scienza della distribuzione della ricchezza, di scienza di programmazione degli investimenti e del lavoro, di scienza dei profitti e così via: ognuno di questi aspetti dell’economia non può essere considerato fondamentale, non essendo adattabile a tutta l’umanità, che soffre, volta per volta, situazione per situazione, di un profondo disagio esistenziale, legato all’assenza di una possibile libertà partecipativa, dovendosi accontentare delle decisioni dei pochi che gestiscono il suo percorso storico. L’economia pertanto è sempre più condizionata dalla storia quanto più personalizzata  è la scelta del  rapporto tra il lavoro e l’uomo. L’economia dell’agricoltura e dei mestieri interpretava la teoria dei bisogni degli uomini; l’economia dell’era industriale interpretava la tendenza progressista delle società a riscattarsi dalla responsabilità delle scelte personali (per condizione e per costrizione), concedendosi così ad un concetto di lavoro collettivizzato e programmato, garantito, in parte, dallo stare insieme, in una catena di produzione, dove una possibile sudditanza del produttore nei confronti del prodotto e del dirigente era bilanciata dall’organizzazione del lavoro e dallo stare insieme, come solidarietà e come garanzia sociale. Ancora il lavoro, per produrre ricchezza, aveva bisogno delle braccia dei lavoratori. L’economia della fase pst-industriale interpreta invece le scelte elitarie che sostituiscono l’impegno delle braccia con la supremazia del cervello, che non si cura più dei bisogni reali, sottoponendoli ad una nuova classe di bisogni, quelli tecnologici e astrattamente comunicativi, la cui aspirazione non è più quella di soddisfare le richieste del corpo, né tanto meno dei sentimenti, ma di rispondere alle regole della logica, nel senso strettamente matematico della conoscenza. Al sentire (quindi all’essere) si sostituisce l’avere (cioè il non essere). La moderna economia guarda dunque alla conservazione del potere e dei privilegi dei pochi rispetto ai molti. E’ quindi un’economia di crisi perché negativa nei confronti dei bisogni dei molti, i quali, non essendo partecipi della tecnologia, se non quali semplici consumatori e perciò utili al mercato tecnocratico, avvertono un profondo senso di precarietà e di solitudine che li fa sentire estranei alla vita e sempre più esposti alle tensioni sociali. In questo scenario degradato prendono posto, in forma poco decorosa, anche se funzionale al sistema, la politica, la cultura, il diritto e tutti i mezzi di comunicazione, schierati e venduti al potere. Né si salva la famiglia ed ancor meno la donna come valore: è soltanto un prodotto di consumo che si preoccupa di partecipare agli utili, anche perché i maschi hanno rinunciato al loro ruolo naturale.     

 Prof. Antonio Vento

31-08-11

 

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