Università degli studi di Roma La Sapienza |
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Nel valzer delle solite ipotesi avanzate da cronisti ed inquirenti, si danno alla strage di Filandari, consumata il 27 dicembre dell’anno trascorso, numerosi significati o valori attraverso i quali pretenderebbero descrivere sul piano antropologico il profilo degli attori, perdenti e vincenti, morti e vivi, che hanno dato vita alla macabra, ma comune, piece. A pensarci bene queste cose accadono soprattutto nei luoghi dove il concetto di giustizia non ha raggiunto ancora un preciso senso di garanzia di convivenza e quindi non ha un significato di valore sociale, ma si alimenta ancora oggi di quei principi antropologici su cui si fondava anticamente il rispetto delle regole di convivenza: basta ricordare l’ancora attuale Codice Bambagino, tuttora sentito nella profonda Sardegna o il codice d’onore, testimoniato dalla stretta di mano, della Calabria. Dico della Calabria e non “della Calabria saudita”, come leggo, a tutto titolo e a lettere cubitali (come per volerlo ricordare e imprimere nel cervello di chi legge) sulle pagine di Libero, del 28 dicembre 2010. E’ da sempre, da quando cioè è stata dichiarata (ma non fatta) l’unità d’Italia, che questo meraviglioso estremo lembo della penisola è stato indicato come luogo di violenze e, soprattutto, di ancestrali grovigli antropologici, che hanno impedito una “normale” evoluzione. Lo stesso Lombroso descrisse il suo primo modello di “criminale” servendosi di un soggetto calabrese studiato nel “manicomio criminale” di Girifalco (CZ). Pasolini scopriva nei calabresi una popolazione chiusa e scarsamente evoluta. Giorgio Bocca è stato sempre impietoso verso i calabresi, visti tutti come affetti da “’ndranghitismo”, male inguaribile da estirpare: perciò i calabresi considerati, come d’altronde da molti altri seminatori d’inchiostro, soggetti sociopatici. La Lega e la politica li ritiene semplice merce di scambio elettorale, con tutte le contraddizioni della storia e nati col virus del parassitismo. I calabresi sono i veri “responsabili” di quanto accade di negativo nel Paese. La stessa magistratura, qualche volta, identifica la calabresità con la criminalità organizzata e si è colpevoli solo perché calabresi, senza però ricordare che, fino a qualche decennio fa, si leggevano, nelle città del nord d’Italia ed anche a Roma, scritte calabrofobiche, come “non si affittano stanze ai calabresi”. Potremmo dire che i Calabresi sono stati omologati agli ebrei perseguitati dai nazifascisti nel passato o agli extracomunitari (perseguitati dalle diverse xenofobie) nell’attuale presente. Nessuno però ricorda che i Calabresi, sparsi per il mondo, hanno portato con la volontà di emergere, dando il meglio di loro, la professionalità, i valori della famiglia e il modello di grande sopportazione di fronte alle violenze subite e allo sfruttamento. Eppure molti Calabresi hanno dimostrato l’alto valore intellettivo nelle scienze, nel diritto, nell’ingegneria e nell’arte: validi ricercatori, insigni medici, politici, magistrati, dotati di grande moralità. I reati dei calabresi valgono il “triplo” rispetto a quelli commessi nel centro-nord, dove si può rubare o lasciar morire la gente senza essere colpevolizzati, perché questi reati, al contrario di quelli commessi da calabresi o da meridionali, sono reati istituzionalizzati: ancora non conosciamo i responsabili della strage di Piazza Fontana, a Milano o quelli della strage della stazione di Bologna, che hanno causato decine e decine di vittime innocenti. Siamo invece concentrati sul discorso delle mafie e della ‘ndrangheta perché appartengono al meridione, dove esiste il 30% di disoccupazione, dove l’assistenza sanitaria è assente, dove i giovani sono abbandonati alla deriva, dove si ammazza per un pezzo di terra (viene spontaneo ricordare le opere di Giovanni Verga o di Corrado Alvaro) perché si è povera gente: forse sarebbe cosa utile, a politici e magistrati, leggersi “Gente d’Aspromonte” di Alvaro, specialmente ora, quando un altro modo di raccontare le cose (a mio giudizio confusionario e giornalistico, che nulla ha a che vedere con la vera letteratura) distoglie le menti dai veri problemi che, nel sud sono il lavoro e la cultura. Prof. Antonio Vento 11-01-11 |
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