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Ricerca antropologica sul disagio mentale

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ANTROPOLOGIA

Fin dalle sue origini, la psichiatria ha fissato il suo interesse analitico sul soggetto singolo, come modello biologico ed esistenziale ed è andata alla ricerca di una giustificazione scientifica, essendo nata come branca della medicina generale, rifiutando ogni accostamento alle scienze filosofiche e sociali, in quanto, in un siffatto accostamento, intravedeva la negazione dei suoi principi organicistici, che si sarebbero posti in  opposizione ad ogni sua autonoma definizione. I  precursori e gli iniziatori di una psichiatria, posta come scienza del concreto, di tipo positivistico, hanno intravisto nella struttura dell’io le basi di ogni suo disagio. Indubbiamente, l’influenza della cultura e la loro stessa formazione avevano sentenziato per una scelta immanentistica, che garantiva, da una parte, l’inoppugnabile riferimento alla medicina, intesa come scienza del concreto, sulla base di principi allopatici, dall’altra, l’utilizzazione di spazi teorici, contrabbandati come prodotti sconosciuti del concreto stesso, perciò facenti parte della scienza. Non c’è dubbio che i presupposti della psichiatria rientrano in una cultura aristocratico-borghese e pertanto in contraddizione con la sua scientificità, che richiede oggettività e distacco da ogni forma di ideologia. La medicina parte dalla composizione anatomo-fisiologica dell’essere vivente, l’uomo, e nello studio di questa struttura intravede i presupposti di una possibile comprensione delle devianze organiche e funzionali, definite patologie. Nel corso di questa esperienza senza fine, la medicina scopre il nesso profondo e costante che c’è tra l’organismo vivente e l’ambiente esterno. Cerca di prolungare , con mezzi chimici o chirurgici,  quanto più è possibile, la vita e considera la morte come la più grave ed irrecuperabile delle malattie. Si muove, senza alcun pregiudizio, com’è giusto fare, sul terreno della ricerca, ma non sempre riesce a rimanere nel corso di un’etica umana, manifestando delle gravi contraddizioni deontologiche ed ontologiche. Deontologiche perché, frequentemente, abbandona il terreno della morale per intraprendere dei percorsi che si caratterizzano per l’ardire epistemologico, ma ignorano ogni definizione di vita, come prodotto assoluto della natura. Ontologiche perché lo studio ed ogni trattamento dell’organismo umano prescindono da una visione metafisica, pertanto assoluta, della vita. La “moderna” definizione di psichiatria passa soltanto attraverso una insana  e pragmatica classificazione di casi clinici, che gli americani hanno voluto trascrivere nel così detto DSM IV, una mera statistica di disagi mentali, il cui fine è quello di far quadrare la visione generale di una medicina che si ferma ad un concetto positivistico e immanente della struttura organica complessiva, costituente, nell’insieme, la vita. Cominciamo col dire che la medicina per essere una scienza complessiva della vita, capace di ristabilite le diverse interruzioni dei circuiti che  compongono il suo spazio di interesse, non può fermarsi, come per esempio può fare la fisica o la matematica (particolare è il ruolo della chimica, specie di quella biologica), ad una riflessione tecnologica o meramente funzionale, finalizzata alla ripetizione in laboratorio di un fenomeno preciso, che in sé è causa ed effetto e solo marginalmente trova un nesso di appartenenza ad una visione assoluta dell’energia, i cui confini sono astratti e assolutamente indescrivibili. Un concetto elementare di vita configura lo spazio ed il tempo dentro cui si consuma, o meglio si trasforma, ogni essente, che però è tale non solo in quanto esiste, ma anche perché, nel suo esistere, testimonia una sua ontogeneticità. L’ontologia della vita non è, come erroneamente si pensa, l’uniformità dell’essere, che anticipa ogni esistenza, nel senso di esserci. La diffusione, come la continuità, dell’esserci non è la garanzia dell’essere assoluto, tutt’altro è questo che potrebbe garantire i molteplici esserci. Solo che l’esserci può fare parte dell’essere, quando esso riesce a concretizzare il suo ruolo di libertà. Ma se l’uomo è alla ricerca della sua libertà vuol dire che la libertà, come ricerca, è inautentica, in quanto una libertà autentica dovrebbe essere quella preesistente alla stessa coscienza, cioè anticipante ogni cambiamento, che presuppone una forma di non autenticità. Un siffatto concetto di libertà autentica, è evidenziabile attraverso una coscienza tetica, unitaria ed ontologica per tutti quelli che non vogliono rinunciare alla priorità dell’essere al quale l’esserci partecipa, rifiutando il suo determinismo storico e psicologico, che di norma mantengono i soggetti che hanno paura di denudare l’io e di porlo in diretto contatto con l’essenza dell’ontologia. Ma una tale definizione di libertà implica l’accettazione dell’esistenza di un Bene, che anticipa la coscienza stessa, specie nella ricerca di una sua autenticità, essendo un Bene preesistente una espressione di inautenticità a causa del suo assoluto e dell’anticipazione di ogni essente. Ritornando alla medicina, possiamo dire che un cardiochirurgo, che trapianta una valvola tricuspide, un internista che cura farmacologicamente una tubercolosi, o un neurologo che controlla la bioelettricità della corteccia con i barbiturici o con gli idantoinici, sono tutti partecipi della scienza medica, ma non sono loro a confermare la medicina come scienza, in quanto è la stessa definizione di vita, in una specie di propriocettività eidetica, che permette a loro di compiere interventi specifici, altrimenti inconcludenti e afinalistici. Partiamo dal presupposto che la vita è un accidente della metafisica, che si protende tra due momenti assoluti in quanto fini irripetibili, la nascita e la morte. La prima però ha un margine di vantaggio ontogenetico rispetto alla seconda : infatti nessuno, di per sé, può chiedere di nascere, la nascita di un nuovo essere umano è deliberata dalle coscienze esterne o dall’incoscienza del sentire, quando esclude ogni ragione; la morte invece può essere partecipata, anticipata o voluta dal soggetto esistente. Possiamo perciò affermare che la nascita, come spinta alla vita, è una manifestazione ontologica della realtà, dove invece, la morte è una forma di semipartecipazione all’ontologia, in quanto non sono del tutto esclusi, nel concetto di morte, il ruolo della storia e l’influenza della psicologia. Per esempio le guerre, la follia e il suicidio sono cause dirette, anche se giustificate solo dalla storia e dalla incapacità di porre la globalità e l’autenticità della vita al centro dell’ontologia, strappandola alla deformazione operata dalla storia, per l’inautenticità delle coscienze e quindi per le paure sottese a mantenere un potere sostitutivo di un impegno verso la libertà. Una siffatta concezione della libertà, in questi casi, vuole essere solo sopraffazione e, di certo, non finisce dove comincia l’altrui libertà. L’altro è una pura astrazione ontologica, anche se rappresenta, nel senso dell’immanenza, un minaccioso pericolo per le coscienze confuse ed inautentiche. In questi casi, la vittima rappresenta la forma di coscienza tetica, causata da altre coscienze non-tetiche che celano la loro inconsistenza di fondamenta. Una psichiatria esistenziale presuppone una visione fenomenologica dell’io, nel quale si incontrano tutte le potenzialità dell’energia cosmica, quelle attuate e quelle ancora inespresse, che si possono slatentizzare, nei millenni, in una visione complessiva dell’ontologia. Perciò una astratta classificazione del disagio mentale, dopo questa premessa, non è utile per la comprensione eidetica di una condizione dell’uomo nel mondo, ma solo per circoscrivere tale disagio, per gestirlo e controllarlo, evitando ogni trauma all’essere-con e alle sue leggi, che non rientrano nel discorso di un’ontologia della vita, ma solo nella pavida psicologia della storia, che spesso causa danni incalcolabili nella realtà e riproduce esponenzialmente i livelli delle diverse patologie. Dobbiamo porci la domanda di quale possa essere l’interesse dell’uomo attuale, ma per raggiungere una risposta adeguata dobbiamo prima stabilire quale sia il significato metafisico dell’interesse, perché altrimenti l’uomo non si spiega con l’interesse, rimanendo tutto nel disinteresse di un interesse che lo fa sentire erroneamente interessato nelle sue scelte. Fondamentalmente dobbiamo chiarire, nel senso di raggiungimento di una definizione metafisica della condizione dell’io nel mondo, i concetti di morali e di valori, partendo dalla definizione di amore e dal valore della vita, comprese le sue dinamiche esistentive. Iniziamo col dire che l’io pone il bisogno-diritto della libertà, nei confronti dell’altro, inserendosi razionalmente e sensitivamente in quest’altro, il quale, a sua volta, riesce, con spontaneità, ad entrare nello spazio dell’io, che sta rivendicando la sua libertà. Questo è l’amore, apparentemente puro e spontaneo, ma così non è perché questa reciproca intromissione comunicativa ha bisogno della testimonianza di un terzo, il quale riduce ed altera la qualità del valore. E’ questa una totalità detotalizzata poiche l’io entra nell’altro, come l’altro entra nell’io, liberandolo istantaneamente da ogni pretestuosità e da ogni condizione di sofferenza, e pone, con questo atto bivalente, i presupposti di una trivalenza, anzi di una plurivalenza, dove la pluralità del messaggio vuol dire liberazione dell’individualità, al contrario del caso in cui la soggettività riesce a vincere nei confronti di ogni alterità, posta da essa come ostacolo alla sua compattezza. In quest’ultimo esempio abbiamo una pseudo totalità che non riesce a detotalizzarsi, rimanendo impigliata in un sistema specificamente ideologico, che allontana l’io dalla metafisica. Se la totalità detotalizzante, di cui facevamo accenno prima, garantisce, nell’alterità, l’amore, la psedudo totalità, che non riesce a compiere, nell’atto intenzionale della trascendenza, una sua detotalizzazione, causa l’odio e la violenza. Si concretizza così l’anti-amore, cioè la chiusura dell’io nei confronti dell’altro, che a sua volta non comunica con l’io e non consente all’alterità l’opportunità di percepire il tutto come un tutto detotalizzato attraverso l’amore e attraverso la serena contemplazione della convivenza.                            

 

 

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